1. Mn. Giuseppe Grampa, Presentazione del libro del Vescovo Volta "Dialogo, Epifania della Misericordia"

RICORDARE IL VESCOVO GIOVANNI VOLTA

Il 30 gennaio scorso, a Mantova, nella Sala delle Capriate di Piazza Leon Battista Alberti, don Giuseppe Grampa, professore emerito di Filosofia delle religioni e parroco a Milano, ha tenuto un ricordo molto significativo del vescovo emerito di Pavia, Giovanni Volta, deceduto a Mantova il 4 febbraio 2012.

                                     

Sono molto grato agli amici mantovani per l’invito a ricordare ancora una volta il carissimo vescovo Giovanni in occasione della pubblicazione Il dialogo, epifania della misericordia (Pazzini Editore, Villa Verucchio (RN) 2015, euro 12,50). È un volumetto piccolo ma prezioso, perché restituisce, insieme alla competenza teologica di don Giovanni (decido di rivolgermi a lui con questa forma familiare), la sua ricca umanità e la sua profonda fede. Parlare di don Giovanni, qui nella sua città, luogo della sua formazione e di una parte importante della sua vita di prete e docente, luogo delle sue amicizie, non lontani dalla concattedrale di Sant’Andrea dove ricevette l’ordinazione episcopale nel 1986, mi riempie di emozione.

Oggi abbiamo tra le mani questo libriccino, piccolo ma intenso. Ho detto che ci restituisce un frammento della sua cultura teologica e una intensa conoscenza della sua umanità. I testi che sono stati scelti per questa pubblicazione si raccolgono in due sezioni: la prima che raccoglie i capitoli primo e secondo sono dedicati al Concilio: “I laici nella chiesa. Rileggendo la Lumen gentium quarant’anni dopo” e “A quarant’anni dalla conclusione del concilio Vaticano II”.

Nel primo saggio ritroviamo don Giovanni docente di teologia che rilegge la costituzione dogmatica Lumen gentium per mettere in luce identità e ruolo dei laici nella Chiesa. È noto il dibattito negli anni dopo il concilio sull’indole propria dei laici. Scrive don Giovanni a proposito di questo dibattito: «La discussione si è concentrata sulla domanda se la condizione secolare qualifica il laico nella Chiesa oppure no, e quindi se il laico doveva essere detto semplicemente “cristiano”, poiché già in forza del battesimo, e non per la sua collocazione nel mondo, poteva essere definito teologicamente […] o se invece la secolarità ha anch’essa una rilevanza teologica» (p. 45).

Alla luce degli interventi postconciliari del magistero – l’Esortazione apostolic Evangelii nuntiandi di Paolo VI (1975), il Sinodo sui laici (1987) e la successiva Esortazione apostolica Christifideles laici di Giovanni Paolo II – don Giovanni riconosce alla secolarità del laico una valenza non di tipo sociologico soltanto ma propriamente teologica. Essere nel mondo e trattare le realtà temporali non è per il laico un dato esteriore, diremmo meramente professionale ma è elemento qualificante la sua vocazione. Per usare un altro linguaggio forse più tradizionale: per il laico il mondo non è semplicemente cornice esteriore di un cammino di santità se non talvolta ostacolo, il laico cammina verso la santità non nonostante il suo essere nel mondo ma grazie al suo essere nel mondo. Essere nel mondo non è un accidente del quale se possibile liberarsi per camminare più spediti verso la santità. Essere nel mondo è condizione insuperabile del proprio cammino di santità.

Ancora con altre parole: il laico è pienamente discepolo del Signore solo se è davvero laico cioè seriamente impegnato nel lavoro, nella famiglia, nell’impegno civile… Scrive don Giovanni: «Non si tratta di un dato esteriore ma di una connotazione teologica» (p. 47). La lezione di cui stiamo ora parlando non a caso venne tenuta all’Associazione Giuseppe Lazzati a Varese nel 2004. E non è difficile ritrovarvi l’impostazione cara appunto al prof. Lazzati, il rettore dell’Università Cattolica che don Giovanni aveva conosciuto e stimato e con il quale aveva collaborato come Assistente spirituale generale del medesimo ateneo (1977-1986). Congiungere Giuseppe Lazzati e don Giovanni su questo tema del laico nella Chiesa e scoprirne le profonde sintonie è di nuovo per me occasione di grata memoria per questi miei maestri e amici.

Meno dottrinale il secondo testo, anch’esso dedicato a far memoria del Concilio. Qui affiora il vissuto di quegli anni che hanno preceduto, accompagnato e seguito il Concilio. Possiamo dire che don Giovanni, dopo esser stato negli anni del suo ministero qui a Mantova un divulgatore dei documenti, è stato a Pavia un vescovo conciliare, traducendone nella prassi pastorale i grandi orientamenti. Pensiamo al suo motto episcopale In Verbo tuo: «In tutti questi anni ho insistito tanto sul primato della parola di Dio, non però per un gusto personale (il prete come il vescovo non devono predicare se stessi come dice Paolo in 2Cor 4,5), perché lo svelarsi e il donarsi di Dio non viene dopo i nostri sforzi, ma prima, perché fonda la nostra salvezza» (p. 69). L’amore per la parola di Dio ha guidato il suo episcopato con una fedeltà costante al primato della parola nel ministero della predicazione, nei Convegni diocesani, nel Sinodo diocesano. Volle anche nel suo Seminario pavese un insegnamento, un vero e proprio corso sul Concilio, che tenne lui stesso.

A questo volumetto è stato dato come titolo: Il dialogo, epifania della misericordia. Grazie anche al suo temperamento aperto, disponibile, capace di durature amicizie, don Giovanni ha praticato il dialogo, nell’insegnamento, nella cura di movimenti laicali di impegno cristiano come la FUCI e l’Azione cattolica, nella cura educativa degli universitari della Cattolica a Milano e di quelli dell’Università di Pavia. Di una significativa esperienza di dialogo che anch’io ho vissuto insieme a don Giovanni, dirò. Non so se al tema del dialogo, quale cifra decisiva del Concilio, don Giovanni abbia dedicato qualche suo intervento. Dirò brevemente quali a me sembrano le due condizioni per un autentico dialogo e non solo nella Chiesa.

La prima: il dialogo è possibile a partire dall’apprezzamento dell’altro. Solo la stima per l’altro mi dispone all’ascolto che è il primo movimento del dialogo. Quando leggiamo nella costituzione conciliare Gaudium et spes il contributo che la Chiesa può ricevere dal mondo, davvero abbiamo gettato dietro le spalle secoli di diffidenza, se non addirittura di condanna: «La Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano. L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa» (n. 44).

E a questo proposito voglio ricordare, come ho detto, una esperienza che più volte ho vissuto con don Giovanni e i giovani studenti della Cattolica prima e della diocesi di Pavia poi: le Settimane estive di teologia. Si affollano nella memoria i ricordi di quei giorni vissuti insieme in Val d’Aosta o a Macugnaga o al passo del Tonale. Quelle settimane avevano una caratteristica appunto dialogica: don Giovanni non voleva solo una trattazione biblico-teologica, ma chiamava anche studiosi di scienze umane, docenti di discipline scientifiche, che con le loro specifiche competenze aiutassero la ricerca. Metteva così in pratica le parole appena richiamate del Concilio.

Ho detto che due sono le condizioni del dialogo: accanto alla stima per l’interlocutore, il riconoscimento del proprio limite. Solo la consapevolezza del proprio limite, della inesorabile parzialità del punto di vita di ognuno di noi può aprirci all’ascolto dell’altro, all’apprezzamento per quel tanto o poco di conoscenza, di luce di verità che può donarci. E il Concilio accanto ad una teologia della gloria della Chiesa ha elaborato una teologia del limite, anzi del peccato che segna la Chiesa. Non era facile tale riconoscimento: voleva dire riprendere l’appello di Lutero per una permanente riforma della Chiesa, riconoscersi come quel campo nel quale cresce il buon grano ma anche l’erba infestante della zizzania. Il Concilio lo ha fatto con umiltà e coraggio e certo uno dei gesti più significativi di papa Woytila è stato la pubblica solenne richiesta di perdono, la prima domenica di Quaresima dell’anno giubilare 2000.

Già nel 1523 papa Adriano VI, l’ultimo papa non italiano del Rinascimento, negli anni della Riforma luterana aveva tentato una riforma, consapevole «che anche in questa Santa Sede fino ad alcuni anni orsono, sono accadute cose abominevolissime: abusi delle cose sacre, prevaricazione nei precetti, e tutto, infine, volto al male. […] Noi intendiamo usare ogni diligenza perché sia emendata anzitutto la Corte romana dalla quale forse tutti questi mali hanno preso l’avvio». Solo il riconoscimento del valore dell’altro, dell’interlocutore, del fratello di diversa fede o di nessuna fede e insieme la consapevolezza dei propri limiti ed errori, può disporre al dialogo ecumenico e interreligioso.

Ma riprendiamo il nostro volumetto che, accanto ai due capitoli dedicati al Concilio, raccoglie quattro testi percorsi dal filo rosso di una memoria grata. Il primo testo è il congedo dai fedeli pavesi, nella festa del patrono san Siro, quando il suo successore è già stato nominato e don Giovanni è amministratore apostolico della diocesi. Il secondo testo è per il ventesimo di episcopato, il terzo per i trentacinque anni di episcopato e l’ultimo nella cattedrale di Mantova per ricordare diversi anniversari sacerdotali e il suo venticinquesimo di episcopato. Li ripercorro secondo l’ordine cronologico.

Nel giorno del saluto dalla Chiesa pavese don Giovanni raccoglie in una cifra sintetica il suo sguardo sulla Chiesa e con una singolare sintonia con la “Chiesa in uscita’ di papa Francesco, sogna una Chiesa estroversa: «Avverto maturo il tempo del passaggio da una comunità con un atteggiamento troppo introverso, preoccupato di avere le proprie comodità religiose a portata di mano, a una comunità operosa che sa guardare lontano. In sostanza da una comunità cristiana che chiede a una comunità che dona, appunto estroversa» (p. 22). E subito dopo volgendosi al nostro tempo, in dialogo appunto con i problemi della nostra società, don Giovanni evoca quattro situazioni proprie dei nostri giorni e che siamo chiamati a leggere e interpretare alla luce del Vangelo. Riprendo due di queste situazioni, potremmo dire segni dei tempi che dobbiamo discernere.

La prima è l’istanza di legalità. Come presidente della Commissione ecclesiale Giustizia e pace delal CEI, don Giovanni ha sentito forte l’istanza di legalità. Un frutto prezioso di quel suo lavoro è stato il documento Educare alla legalità (1991). Il dilagare della corruzione nel nostro Paese rende ancor più decisivo quel testo, davvero anticipatore. Un secondo segno dei tempi è avvertito da don Giovanni come decisivo: il dialogo tra scienza ed etica, tra scienza e fede. Viviamo in una società sempre più ricca di mezzi ma sempre più incerta quanto alla determinazione delle finalità, del senso da riconoscere alla vicenda umana. E anche qui: solo un dialogo aperto tra scienza dei mezzi e sapienza dei fini può orientare il grande sviluppo tecnologico al vero bene dell’uomo.

La celebrazione dei suoi vent’anni di episcopato riporta don Giovanni a Pavia con il cuore colmo di gratitudine e di ottimismo. È questa la cifra della sua omelia dedicata a riconoscere con gioiosa meraviglia «gli slanci di bene, di carità, riflessioni acute, propositi forti anche in persone ritenute lontane dalla fede o dalla pratica religiosa […]. Una scoperta che ha determinato in me un fondamentale ottimismo basato non sulle mie forze o sulle nostre strategie pastorali ma sull’inesauribile amore di Dio per l’uomo» (p. 66). Persuaso con san Tommaso d’Aquino che il bene, la verità da chiunque provengano sono da Dio, don Giovanni non cede al lamento sterile né all’invettiva contro la nequizia dei tempi, ma si affida alla forza dello Spirito che rinnova il volto della terra: «Mi sono convinto che la Pentecoste è nota permanente della Chiesa» (p. 67).

Ritorna a Pavia per il venticinquesimo di episcopato e l’omelia è come travolta dall’alta marea dei ricordi: «Risento le voci di mio padre e di mia madre, dei miei fratelli, risento in giardino profumi antichi. Ogni angolo di casa mi racconta qualche frammento della mia vita. Per questo non mi sento mai solo. La stessa casa mi parla» (pp. 86-87). Don Giovanni lascia che le emozioni invadano il suo cuore e suggeriscano le parole e a noi sembra di esser con lui, con la sua famiglia ad ascoltare le storie dei personaggi della Bibbia. «Mio padre un contadino fu il mio primo maestro di Sacra Scrittura» (p. 82).

La grande cura pastorale che il vescovo Giovanni avrà per la famiglia nasce da questo vissuto semplice, modesto eppure ricco di umanità e di sapienza cristiana. E a conclusione don Giovanni racconta un episodio della sua fanciullezza che ha il sapore, la freschezza di un fioretto francescano: sembra di vederli i due più piccoli della famiglia Giovanni e Giuseppe coperti dal tabarro del papà per ripararli dalla pioggia nel tragitto dalla casa alla chiesa. E giunti sulla porta della chiesa, il tabarro si spalanca e «noi correvamo dentro la chiesa come due uccelli che lasciano il nido» (p. 90).

E siamo all’ultimo testo, l’omelia pronunciata qui a Mantova in cattedrale per celebrare alcuni anniversari sacerdotali e il suo venticinquesimo di episcopato. Una omelia dedicata all’essenziale della vita di un prete, di un vescovo, quasi avvertisse che il tempo ormai si faceva breve e bisognava «percorrere la scorciatoia dell’essenziale». E questa non può essere altro che la risposta alla domanda di Gesù a Pietro mi ami tu?: «In tutti questi anni abbiamo sperimentato che questo è il “motore” della nostra vita, quello che la rende vera e fervida ogni giorno. […] Questo è il sugo che ricavo dalla nostra lunga storia dove la priorità è dell’amore che ci ha spinto, non del posto che abbiamo occupato. È una convinzione che ci rende sereni e anche un po’ disincantati e umoristi verso ingenue sollecitazioni di vanità» (pp. 94-95).

Ho ripercorso, e forse un poco sciupato, la spontaneità e la freschezza di tante parole di don Giovanni e al termine non posso non riprendere il suo motto episcopale: In Verbo tuo (sulla tua Parola). Quando Paolo a Efeso, in procinto di salpare per Gerusalemme, dove lo attendono tribolazioni e catene, prende congedo da quella comunità che ha tanto amato e per la quale ha sofferto, dice una parola che mi sembra possa essere anche la consegna ultima di don Giovanni (cfr. p. 27). Dice Paolo: «Vi affido a Dio e alla Parola della sua grazia» (At 20,32). Notiamo bene, non dice come sembrerebbe più ovvio: «Vi affido la Parola», come dire custodite le mie parole, quelle che vi ho tante volte annunciato. No, dice: vi affido alla Parola, sì, perché la Parola non è cosa, oggetto, ma è qualcuno al cui abbraccio misericordioso siamo tutti affidati. Vi affido alla Parola, vi affido al Signore Gesù, perché tutto è Cristo per noi, perché tu, Signore, tu ci sei necessario.

Don Giuseppe Grampa, Mantova, sala delle Capriate, 30 gennaio 2016